lunedì 15 ottobre 2007

Michael Clayton e la ricerca della conoscenza

C’è un accordo di settima minore che mi sussurra all’orecchio mentre batto sulla tastiera. Non faccio mica per dire, è che qualcuno suona, ora, indifferente alle parole cui dò forma sullo schermo.
Sono stato al cinema ieri sera, davano Michael Clayton: la pellicola mi si srotolava davanti agli occhi e io stavo lì, storto su di una poltrona troppo piccola, con poco spazio per le gambe.
Proprio quando la mia ammirazione per una denuncia così forte e velata insieme era al suo zenit la ragazza accanto a me ha cominciato a russare e contemporaneamente un tizio, seduto dietro, ha dichiarato di non aver afferrato un’acca, sinora. Evidentemente le mie capacità critiche non valgono la suddetta acca, oppure mi sono capitati due vicini digiuni di buon cinema, probabilmente un po’ dell’uno e un po’ dell’altro (ecco qua, ottimo esempio di bipolarismo e contraddittorio, visto che se ne parla di questi tempi).
Ora, disgraziatamente, non posso fare a meno di pormi una domanda molesta e noiosamente retorica, ovvero: quanti degli spettatori di stasera hanno infilato il cappotto trasformati in percipienti? (parolaccia difficile e in disuso, ma mi piace perché assomiglia a “recipienti”, che è un’ottima metafora per quello che dovrebbe essere il nostro atteggiamento di fronte ad un’opera d’impegno, di qualsiasi natura essa sia).
In fondo mi piace pensare che sia la ragazza dal sonno pesante che il tizio cui è sfuggito l’intreccio porteranno a casa qualcosa, perché un film non finisce ai titoli di coda come un libro non si chiude mai veramente all’ultima pagina, ma continua a sfogliare dentro di noi, chiedendoci un parere o volendo solo fare due chiacchiere; ci tirano la manica come un bimbo annoiato, chiedendoci un po’ d’attenzione, andando a comporre un puzzle di consapevolezza che tutti stiamo costruendo pezzo per pezzo, anche sapendo che difficilmente riusciremo a posizionare l’ultimo tassello, perduto o introvabile che sia.

A presto,

M.P.

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