sabato 22 marzo 2008

Thick as a Brick

Evidentemente un post di spiegazione delle mie posizioni non è bastato, visto che sono state equivocate di nuovo. Ho già detto che non avrei speso una parola in più su questo argomento, e non lo farò comunque, anche solo per coerenza, qualità che non ho sempre riscontrato nel dibattito provocato (non sono accuse generalizzate, prendetele come tali). Sono contento che una volta tanto si sia accesa una discussione viva, sul serio, e spero che succederà di nuovo, magari tornando al mio argomento prediletto: sana letteratura. Chiudo i miei interventi non con le mie parole, ma con quelle del grande menestrello Ian Anderson, uno che certo non te la mandava a dire.


Really don't mind if you sit this one out.
My words but a whisper -- your deafness a SHOUT.
I may make you feel but I can't make you think.
Your sperm's in the gutter -- your love's in the sink.
So you ride yourselves over the fields and
you make all your animal deals and
your wise men don't know how it feels to be thick as a brick.
[...] And the youngest of the family is moving with authority.
Building castles by the sea, he dares the tardy tide to wash them all aside.
("Thick as a brick part I", Jethro Tull)

venerdì 21 marzo 2008

G8 parte III

Mi inserisco su questa diatriba sui famosi e tristemente noti fatti del G8 di Genova.

Per prima cosa vorrei puntualizzare la mia posizione politica di sinistra, tanto per mettere le cose in chiaro, perché sono decisamente d'accordo con D. (e qui già scatta la stranezza) quando parla dell'autocritica e dell'onestà.

Dunque, penso che i fatti principali siano stati tre: la morte del manifestante Carlo Giuliani, l'assalto alla scuola Diaz e le relative “torture” (spero che M.P. mi passi la virgolettatura) presso la caserma del Bolzaneto.

Ora per prima cosa vorrei ricordare che, se la memoria non mi inganna, l'ordine cronologico di questi avvenimenti sia Giuliani, Diaz, Bolzaneto. Credo sia un aspetto importante.

Beh per quanto riguarda la morte di Carlo Giuliani, credo che a meno di straordinari sconvolgimenti quali la scoperta che in realtà degli UFO abbiano attaccato proprio in quel momento modificando le coordinate dello spazio-tempo (cosa che peraltro qualche rapporto delle forze dell'ordine potrebbe cercare di farci credere), dicevo la morte di Carlo Giuliani possa essere tranquillamente spiegata, con un poliziotto, un giovane poliziotto che non ha retto al peso di un tizio pronto a tirare un estintore. Vogliamo forse dargli anche colpe che non ha?

Forse l'unica colpa che ha quel povero cristo è quella di non aver mirato alle gambe o non aver mirato bene in aria, e vi dirò di più, io non gli darei colpe neanche se avesse mirato a Carlo Giuliani.

Ragazzi su via, è ora di finirla. Io ho una pistola in mano, e lasciamo stare per quanti soldi al mese ho questa pistola in mano, conta solo che ce l'ho e un tizio (un tizio più altri mille) è pronto a farmi del male. Beh cazzo scusate se gli sparo.

Carlo Giuliani quella morte se l'è andata a cercare, non mi pare farlo passare come martire come qualche sostenitore della sua tesi ha cercato di fare.

Ora penso che per andare a parlare dell'assalto alla scuola Diaz bisogni immaginare anche la situazione generale.

Una intera città messa a ferro e fuoco da dei deficienti in nome di non si sa quale idea, forse solo quella di sfogarsi. Un corpo di polizia esasperato e stanco di lavorare per i cittadini onesti.

In questo scenario è ambientata la vicenda della scuola e della sua perquisizione/massacro.

Che poi è un tutt'uno con quello che è successo alla caserma del Bolzaneto.

Allora io sono sicuramente d'accordo con Marco sul fatto che in uno stato democratico non possa esistere la tortura. Non può e non deve esistere. E sono sicuro che sia successo quello che molti, soprattutto con rapporti contraffatti, cercano di nascondere.

Sono sicurissimo di questo e la mia indignazione è pari solo alla schifo che mi fanno queste persone.

Però d'altra parte non posso non pensare alle volte che mi sono trovato a manifestazioni, in special modo quelle studentesche in cui i soliti coglioni partono urlando contro le forze dell'ordine e partono solo per fare del male, dicendo poi che sono state le forze dell'ordine a cercare lo scontro.

“La mamma dei cretini è sempre in cinta” recita un proverbio, ma credo che le mamme siano più d'una e che siano in entrambi gli schieramenti.

Perché esistono poliziotti e carabinieri che si sentono Dio e sono senza mezzi termini dei figli di puttana, ma esistono (e spero e credo siano la maggior parte) padri di famiglia, mariti, figli, che lavorano per il bene comune. Mentre mi riesce molto più difficile credere che nei manifestanti di Genova ci sia stato qualcuno più tranquillo, o per lo meno, il rapporto tra l'uno e l'altro non mi sembra paritario.

Per questo mi pare da stupidi e cretini il tentativo fatto sui commenti da qualcuno di cercare giustificazioni alle torture che evidentemente e senza dubbio ci sono state e che non solo non hanno giustificazioni ma dovrebbe essere punite allo stesso modo, anzi in modo maggioritario (un po' come il fallo di reazione a calcio) perché tu forza dell'ordine sei lì per rappresentare lo Stato e sei lì e devi essere preparato e pronto per quello che stai per fare.

Ma mi pare altrettanto cretino e stupido fare del qualunquismo (e mi spiace M.P. dirti che questa è un po' una tua pecca, senza cattiveria te lo dico) e andare con gli occhi bendati contro tutto e tutti.

Sarebbe bello che chi avesse sbagliato paghi, sia manifestanti (nella quale fazione vorrei precisare credo ci fossero stati molti più sbagli) sia forze dell'ordine. Ma il discorso è sempre quello, la legge è uguale per tutti, ma per qualcuno è più uguale.


Saluti.


Leonardo alias Palo Coelho.

martedì 18 marzo 2008

Una lettera di Valefree

Il buon vecchio Valefree mi ha spedito quest'email riguardo il mio post di ieri sui fatti di Genova (leggetevelo pure, se non l'avete ancora fatto).
Vista l'eleganza generale e la pacatezza del suo tono non potevo lasciarlo senza una risposta.



Ciao M.P.
Ho letto la tua pubblicazione su poets.
Volevo commentare ma credo che sia giusto che quello che penso lo debba leggere tu per primo, perchè sono considerazioni più verso di te che verso l'articolo.
Tu sai quanto ti stimo, ma sai anche quanto questo argomento mi tocchi da vicino.
Volevo solo metterti in guardia dalla pericolosa tentazione di generalizzare. Non esiste una netta demarcazione tra il bene e il male, così come non tutto è bianco o nero. Sono estremamente convinto che quelle accuse siano vere e sono ancor più convinto che chi ha sbagliato deve essere punito. Tieni presente però che le forze dell'ordine sono in prima linea a difesa dei cittadini e, anche se alcunidi loro hanno commesso soprusi, molti altri lavorano onestamente per assicurare la sicurezza alla popolazione.
Non volevo nemmeno tralasciare il fatto che i genitori del ragazzo ucciso al G8 sono diventati entrambi parlamentari e che il giovane carabiniere che l'ha ucciso è stato vittima di troppi incidenti strani, fino a morire perchè la sua macchhi aveva i freni ROTTI. Anche questo è passato sotto silenzio.
Ti mando questa mail per correttezza e per completamento e non per polemica. Come si suol dire, una botta al cerchio e una alla botte (scusa per i luoghi comuni).
Se vuoi, anzi ti invito calorosamente, pubblica questa mia.
Sperando di essere stato il più oggettivo possibile, ti saluto.

Valefree


Probabilmente quel mio giudizio così secco deve averti urtato, e so bene perchè. Ma credo che ci sia stato una fraintendimento leggero tra di noi: per quanto la mia opinione generale delle forze dell'ordine non sia granchè buona (ma CREDO e SPERO, anzi SO che qualcuno che fa il proprio lavoro seriamente c'è ancora), il mio attacco era circoscritto e destinato al manipolo di squadroni della morte posti a guardia dei manifestanti arrestati. Ho detto "cattivi" perchè le opinioni di allora (che certo ricorderai) furono in maggioranza di condanna verso la manifestazione, che fu giudicata violenta, terroristica e quant'altro. Lungi da me generalizzare, sai quanto mi interessino le varie sfaccettature di ogni cosa, quell'aggettivo voleva essere una sorta di risposta a quanti diedero dei violenti ad un gruppo in maggioranza pacifico (togli Giuliani, togli Black Blocks), e lodarono un gruppo in maggioranza violento (come hai potuto leggere, la gente si ricorda di UN carabiniere gentile nell'inferno di bolzaneto).
Spero di essere stato chiaro e di aver "squadernato" dettagliatamente il mio punto di vista, che come vedi non intende condannare in toto e, inoltre, era piuttosto viziato dal disgusto provato a caldo alla lettura dell'articolo.
Grazie per la lettera,
M.P.

lunedì 17 marzo 2008

Viva la democrazia, viva la libertà

Parentesi dolorosa e reale fra i bei lavori di fantasia che solitamente i nostri collaboratori vi offrono. Trattasi di un articolo di Repubblica in cui vengono dettagliatamente descritte le sevizie inflitte ai manifestanti arrestati durante il passato G8 di Genova. Nel caso abbiate ancora dei dubbi su chi siano i cattivi. Vi prego, vi PREGO, leggetevelo e urlate pure quello ne pensate, a me è venuto da vomitare, senza iperboli. Grazie al buon Flavio, che in quanto a battaglie è sempre in prima linea...per fortuna.

Repubblica 17.3.08
La verità sulle violenze al G8 di Genova
Le torture a Bolzaneto e la notte della democrazia
di Giuseppe D'Avanzo

Genova: senza il reato di tortura, pene lievi e prescritte per gli imputati

C´era anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo ricordano. «Giovanissimo». Più o meno ventenne, forse «di leva». Altri l´hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di «sospensione dei diritti umani», ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell´amministrazione penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai "prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell´acqua, se ne aveva una a disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva. Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato – contro i 45 imputati – che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.

Oggi la caserma non è più quella di allora: e i "luoghi della vergogna" sono stati cancellati
Manganellate, minacce, insulti, botte e umiliazioni: tutto ricostruito al processo da più di trecento testimoni Episodi documenti, provati
In quei tre giorni poliziotti e carabinieri rinchiusero per ore studenti, operai e professionisti.

Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista…). I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che «soltanto un criterio prudenziale» impedisce di parlare di tortura. Certo, «alla tortura si è andato molto vicini», ma l´accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.
Il reato di tortura in Italia non c´è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell´Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d´uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l´abuso di ufficio, l´abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell´indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).
Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa «degli altri», di quelli che pensiamo essere «peggio di noi». Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.
* * *
Nella prima Magna Carta - 1225 - c´era scritto: «Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese». Nella nostra Costituzione, 1947, all´articolo 13 si legge: «La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà»
* * *
La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un´accorta gestione, si sono voluti cancellare i «luoghi della vergogna», modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l´idea di farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C´è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l´arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come «Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!», cori di «Benvenuti ad Auschwitz». Dov´era il famigerato «ufficio matricole» c´è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come «Morte agli ebrei!», ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.
* * *
Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l´ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l´ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo). A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: «Allora, non li vuoi vedere tanto presto…». A un´altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H.T. chiede l´avvocato. Minacciano di «tagliarle la gola». M.D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: «Vengo a trovarti, sai». Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni «per accertare la presenza di oggetti nelle cavità». Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i «tempi di permanenza nella struttura». Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all´ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.
* * *
È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le «posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa». La «posizione del cigno» - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell´attesa di poter entrare «alla matricola». Superati gli scalini dell´atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della «posizione» peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella «posizione della ballerina», in punta di piedi. Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato «entro stasera vi scoperemo tutte»; agli uomini, «sei un gay o un comunista?» Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: «viva il duce», «viva la polizia penitenziaria». C´è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un «trauma testicolare». C´è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella «posizione della ballerina». Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l´altro piede». Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. «Comunista di merda». C´è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I.M.T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B.B. è in piedi. Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». S.D. lo percuotono «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A.F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti», «Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte». S.P. viene condotto in un´altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J.H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». J.S., lo ustionano con un accendino.
Ogni trasferimento ha la sua «posizione vessatoria di transito», con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C´è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.
In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l´altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: «I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone». Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P.B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: «E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci». Poi un´agente donna gli si avvicina e gli dice: «È carino però, me lo farei». Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell´unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all´accompagnatore. Che sono spesso più d´uno e ne approfittano per "divertirsi" un po´. Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, «arrangiandosi così». A.K. ha una mascella rotta. L´accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E.P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto «se è incinta». Nel bagno, la insultano («troia», «puttana»), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: «Che bel culo che hai», «Ti piace il manganello». Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché «puzzano» dinanzi a medici che non muovono un´obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato «strattonato e spinto». Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con «questo è pronto per la gabbia». Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di «trofei» con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, «indumenti particolari». È il medico che deve curare L.K.
A L.K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un´iniezione. Chiede: «Che cos´è?». Il medico risponde: «Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!». G.A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All´arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c´è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due «fino all´osso». G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede «qualcosa». Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare. Per i pubblici ministeri, «i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria».
* * *
Non c´è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell´estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un´osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l´indifferenza dell´opinione pubblica, l´apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto. Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la «dimensione dell´umano» di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre «con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l´etica, con l´identica allergia alla coerenza»?

martedì 4 marzo 2008

Ode all'amarezza, D.

Vado a letto sempre tardi, anche quando non vorrei.
Sempre più tardi, per l’esattezza.
Prima, per addormentarmi, leggevo qualche riga. Poi ho scoperto che non mi conveniva, perchè il libro mi rapiva, e le ore si allungavano, anzichè accorciarsi.
Allora ho studiato un modo nuovo... non è che proprio mi concilii il sonno, no, ma è un modo diverso per sfinirmi e farmi spegnere il cervello. L’altro, ho scoperto, è fare l’amore. Ma non è tempo d’amore, questo.
Così ogni notte mi stendo nel mio letto. Spengo la luce sul comodino, mi tiro le coperte fin sopra la testa.
E costruisco.

Si, io costruisco. Edifico, pian piano.
Il soggetto è quasi sempre lo stesso... Nel buio, nel tepore, inizio a mettere in fila i mattoni della mia casetta in riva al mare.
E’ la cosa più privata che ho. La custodisco gelosemente, perchè un po’ me ne vergogno.

Sarà che è un desiderio un po’ retro’, un po’ sessantenne, un po’ Italia anni ‘50.

Da un giovane uomo che ha da poco superato i vent’anni, una cosa del genere non se l’aspetta nessuno. C’è di che scandalizzarsi.
Niente fama, niente gloria. Niente vizi. Niente lussuria, nè gola.
Lasciato solo coi miei desideri, tutto quel che mi viene da fare è costruirmi una casa in riva al mare.

E io la vedo, e costruisco.
Impilo file e file di mattoni. Intonaco, coloro, scelgo tegole, porte, finestre.

Non è che sia sempre tutto uguale.. cambia. Cambiano i colori, una volta qua c’è una finestra una volta no..la casa non è sempre la stessa. Qualche differenza c’è sempre. Però più o meno si somigliano tutte, le mie case in riva al mare.

Mi sento l’esatta metà fra un muratore e un direttore d’orchestra, con la camicia rimboccata sui bicipiti, che costruisco solo muovendo le mani con decisione, neanche stessi dirigendo la Turandot.

Ed è fantastico che io non sia sporco di cemento, è magnifico che il tutto vada a una velocità supersonica e che in men che non si dica la casa sia finita.
E che subito inizi a invecchiare.

Mi fermo solo un attimo appena sento di aver compiuto il lavoro, mi scrollo via due ipotetiche gocce di sudore dalla fronte, e approfitto della pausa per far sbocciare, piano piano, l’ambiente tutto intorno.

Il pino marittimo grande accanto al muro di cinta. La siepe di girasoli piantati in un angolo (qualche volta li vedo belli freschi, qualche volta invece bruciati dal sole). La panchina scura, in ferro battuto, o in legno, più raramente. Quasi sempre appoggiato alla panchina c’è un paniere in vimini, di quelli piccoli, col coperchio. Puzza un po’ di pesce, come se fosse stato lavato e messo lì ad asciugare dopo aver custodito i frutti d’una qualche battuta di pesca.
Ogni tanto il panierino ronza del rumore di una vespa che gli gira intorno.
Ogni tanto c’è una qualche lucertola che striscia sul muro assolato per scaldarsi la pancia.
Ogni tanto non ci sono i girasoli, e al loro posto c’è un cavalluccio di legno tutto mangiato dalla salsedine, che tanto tempo prima dev’essere stato usato da un bambino. O forse due.

Ogni tanto ci sei tu, e questo è un male.

Perchè, quando ci sei, il sonno che sentivo arrivare se ne va del tutto.

T’ho fatto venir fuori, qualche volta, dalla grande porta-finestra che dalla cucina si affaccia al grande patio col pavimento di cotto rosso.
E’ capitato spesso che avessi in mano un piatto con sopra pane e pomodori. Una volta ne ho sentito anche il profumo, l’odore speziato di origano e cipolle.
E una volta ricordo che invece avevi in mano una rivista.
Un’altra ancora stropicciavi un fazzoletto che visto da lontano mi sapeva di umido e salato. Quel giorno per la prima volta m’è sembrato che piangessi.
Mai però t’ho visto con gli occhi allegri. Così dopo un po’ ho smesso di guardarli e ti guardavo i piedi, e li vedevo sempre scalzi, un po’ cotti dal sole.
Quando ho provato a sbirciarti il viso, non ci ho mai visto un sorriso, e lì ho capito.

Quella casa... credo sia mia.
Voglio dire, non ne sono sicuro... ma ogni notte, vedi, io la costruisco. Quindi in qualche modo mi appartiene, è la mia casa.
E’ una cosa stupida, stabilire la proprietà di un sogno, ma mi fa stare bene, mi fa sentire protetto.

Credo anche che quella casa non sia solo mia.
Me lo suggeriscono il cavalluccio di legno, qualche paio di scarpe troppo piccole per i miei piedi appoggiate sul davanzale, e i girasoli che sono curati così bene che le mie mani non ci sarebbero riuscite mai, nemmeno in un sogno.

No, quella cosa non è solo mia.

Quella casa non è tua, perchè tu non ridi.

E io non dormo.