martedì 4 marzo 2008

Ode all'amarezza, D.

Vado a letto sempre tardi, anche quando non vorrei.
Sempre più tardi, per l’esattezza.
Prima, per addormentarmi, leggevo qualche riga. Poi ho scoperto che non mi conveniva, perchè il libro mi rapiva, e le ore si allungavano, anzichè accorciarsi.
Allora ho studiato un modo nuovo... non è che proprio mi concilii il sonno, no, ma è un modo diverso per sfinirmi e farmi spegnere il cervello. L’altro, ho scoperto, è fare l’amore. Ma non è tempo d’amore, questo.
Così ogni notte mi stendo nel mio letto. Spengo la luce sul comodino, mi tiro le coperte fin sopra la testa.
E costruisco.

Si, io costruisco. Edifico, pian piano.
Il soggetto è quasi sempre lo stesso... Nel buio, nel tepore, inizio a mettere in fila i mattoni della mia casetta in riva al mare.
E’ la cosa più privata che ho. La custodisco gelosemente, perchè un po’ me ne vergogno.

Sarà che è un desiderio un po’ retro’, un po’ sessantenne, un po’ Italia anni ‘50.

Da un giovane uomo che ha da poco superato i vent’anni, una cosa del genere non se l’aspetta nessuno. C’è di che scandalizzarsi.
Niente fama, niente gloria. Niente vizi. Niente lussuria, nè gola.
Lasciato solo coi miei desideri, tutto quel che mi viene da fare è costruirmi una casa in riva al mare.

E io la vedo, e costruisco.
Impilo file e file di mattoni. Intonaco, coloro, scelgo tegole, porte, finestre.

Non è che sia sempre tutto uguale.. cambia. Cambiano i colori, una volta qua c’è una finestra una volta no..la casa non è sempre la stessa. Qualche differenza c’è sempre. Però più o meno si somigliano tutte, le mie case in riva al mare.

Mi sento l’esatta metà fra un muratore e un direttore d’orchestra, con la camicia rimboccata sui bicipiti, che costruisco solo muovendo le mani con decisione, neanche stessi dirigendo la Turandot.

Ed è fantastico che io non sia sporco di cemento, è magnifico che il tutto vada a una velocità supersonica e che in men che non si dica la casa sia finita.
E che subito inizi a invecchiare.

Mi fermo solo un attimo appena sento di aver compiuto il lavoro, mi scrollo via due ipotetiche gocce di sudore dalla fronte, e approfitto della pausa per far sbocciare, piano piano, l’ambiente tutto intorno.

Il pino marittimo grande accanto al muro di cinta. La siepe di girasoli piantati in un angolo (qualche volta li vedo belli freschi, qualche volta invece bruciati dal sole). La panchina scura, in ferro battuto, o in legno, più raramente. Quasi sempre appoggiato alla panchina c’è un paniere in vimini, di quelli piccoli, col coperchio. Puzza un po’ di pesce, come se fosse stato lavato e messo lì ad asciugare dopo aver custodito i frutti d’una qualche battuta di pesca.
Ogni tanto il panierino ronza del rumore di una vespa che gli gira intorno.
Ogni tanto c’è una qualche lucertola che striscia sul muro assolato per scaldarsi la pancia.
Ogni tanto non ci sono i girasoli, e al loro posto c’è un cavalluccio di legno tutto mangiato dalla salsedine, che tanto tempo prima dev’essere stato usato da un bambino. O forse due.

Ogni tanto ci sei tu, e questo è un male.

Perchè, quando ci sei, il sonno che sentivo arrivare se ne va del tutto.

T’ho fatto venir fuori, qualche volta, dalla grande porta-finestra che dalla cucina si affaccia al grande patio col pavimento di cotto rosso.
E’ capitato spesso che avessi in mano un piatto con sopra pane e pomodori. Una volta ne ho sentito anche il profumo, l’odore speziato di origano e cipolle.
E una volta ricordo che invece avevi in mano una rivista.
Un’altra ancora stropicciavi un fazzoletto che visto da lontano mi sapeva di umido e salato. Quel giorno per la prima volta m’è sembrato che piangessi.
Mai però t’ho visto con gli occhi allegri. Così dopo un po’ ho smesso di guardarli e ti guardavo i piedi, e li vedevo sempre scalzi, un po’ cotti dal sole.
Quando ho provato a sbirciarti il viso, non ci ho mai visto un sorriso, e lì ho capito.

Quella casa... credo sia mia.
Voglio dire, non ne sono sicuro... ma ogni notte, vedi, io la costruisco. Quindi in qualche modo mi appartiene, è la mia casa.
E’ una cosa stupida, stabilire la proprietà di un sogno, ma mi fa stare bene, mi fa sentire protetto.

Credo anche che quella casa non sia solo mia.
Me lo suggeriscono il cavalluccio di legno, qualche paio di scarpe troppo piccole per i miei piedi appoggiate sul davanzale, e i girasoli che sono curati così bene che le mie mani non ci sarebbero riuscite mai, nemmeno in un sogno.

No, quella cosa non è solo mia.

Quella casa non è tua, perchè tu non ridi.

E io non dormo.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

E' un bel modo per addormentarsi, magari non veloce, ma forse poi si dorme più sereni dopo aver costruito nella nostra testa i sogni da svegli. Anche se non si sogna di suonare a sansiro davanti a 3 milioni di fan sfegatati. Anche i desideri medioborghesi possono essere belli, ma tutti hanno un difetto in comune, ce ne dimentichiamo subito se per addormentarci potessimo fare del sano sesso anzichè elucubrare tanto a lungo. Comuqnue simpatico il testo.

Anonimo ha detto...

Sarà proprio il fatto che per motivi geografici a me il sano sesso è abbastanza interdetto che mi ritrovo a impastare calce e mattoni.
Smettere di sognare forse non sarebbe giusto, ma sicuramente sarebbe più piacevole.

O cambio donna, o cambio città, o continuo a impastare. ;)

Grazie.

D.

Anonimo ha detto...

beglio per motivi geografici che per mancanza di una persona con cui poterlo fare... ma hai già scritto sul cabo?

Anonimo ha detto...

E' il terzo o quarto post. ;D

D.