A presto,
Eliza chiuse gli occhi quando Nicholas glielo chiese.
Sentiva la sua mano scorrergli piano sul viso e sorrise; la luce matura d’agosto sembrava cullarla, così stesa tra l’erba, con i lunghi, neri capelli che fluivano nel prato come fiamme buie. L’aveva portata vicino allo stagno dove si erano incontrati la prima volta, il luogo che aveva visto nascere e crescere il loro sentimento: l’amore improbabile e classico, a suo modo, tra la ricca figlia del latifondista cotoniere e il bracciante girovago. Lei, bella come una rosa selvatica, lui taciturno, buio, un diamante rimasto carbone. Era stata tutt’altro che una pura storia adolescenziale, però: si erano concessi l’uno all’altra senza remore o pudicizia. Era semplicemente la cosa giusta da fare. Adesso Nicholas sarebbe dovuto andare via, il vecchio O’ Day sapeva. A lei non l’aveva ancora detto, di certo la cosa l’avrebbe distrutta, o peggio.
Così bella e acerba, come poteva permettere che il tempo si prendesse la sua bellezza giorno dopo giorno?
Non c’era nulla di più triste che guardare un albero seccarsi.
Eliza era completamente abbandonata alle sue mani, silenziosa. All’improvviso sentì che lui smetteva di carezzarla, rimase un attimo in attesa, poi gli chiese di continuare, per favore, era bello.
Aprì gli occhi, e vide appena le sue mani che stringevano una pietra appuntita, ancora sporca di terriccio.
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