Se parlo di te, quel che posso dire è che dai un senso ai sensi.
La vista, per esempio.
Dopo di te, la si rivaluta.
Ci si trova costretti a riconsiderarla, e si rischia di cadere in una tragica empasse nel dover scegliere se ringraziarla, per aver catturato la tua immagine, o se maledirla e sperare che in un solo istante le luci si spengano, per sempre, per sempre tenendo te, il tuo viso, i tuoi occhi, come ultimo\eterno fotogramma.
Fermo immagine. Tu.
L’udito... l’udito perde la pace del silenzio, quando fa i conti con la tua voce (bassa, sensuale...parla per te una pantera arrotolata nella tua gola, che fa le fusa al bianco dei denti scambiandoli per spicchi di luna).
Il tatto e il gusto s’abbracciano, disperati per non aver saggiato, di te, sapore e pelle.
L’olfatto si sbatte, prende a pugni gli odori nel mucchio finchè non trova il tuo, e a quel punto lo cerca, saltando i chilometri, s’illude di rintracciarlo nell’afrore di altri corpi, in altre braccia che non sono tue, in un collo che non abbia la stessa linea perfetta e disarmante.
Se “senso” e “sensuale” hanno, anche solo linguisticamente se non ontologicamente, una comune radice, è in te che la vedo ( e non è, vederla, frutto d’un senso a sua volta?).
Cerco nel Senso, ancora lui, di poche righe scritte a mente quasi fredda, una traccia che ti ritrovi o mi condanni a non trovarmi.
Se tu sei Perdersi, possa io non trovarmi mai più.
Dico “perdermi” e vorrei dirti “prendimi”. Le lettere sono più o meno le stesse.
Sono le azioni, quelle si, ad essere diverse.
Prendimi.
(D, x P.)
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